La campagna di scavo del 2014
Il 5 maggio del 2014 ripresero dopo più di trent’anni le indagini archeologiche a Mont’e Prama.
L’intervento, sotto la direzione di una squadra della Soprintendenza di Cagliari (Alessandro Usai ed Emerenziana Usai) e dell’Università di Sassari (Raimondo Zucca, Paolo Bernardini e Pier Giorgio Spanu), fu possibile grazie al finanziamento della L.R. 7/2007 e all’accordo tra le istituzioni coinvolte, quali la Direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Sardegna, la Soprintendenza per i Beni archeologici per le province di Cagliari e Oristano, il Comune di Cabras, la Casa circondariale di Oristano-Massama, l’Università di Sassari, l’Università di Cagliari e il Consorzio Uno.
Le prime giornate vennero dedicate al diserbo, alla pulizia dell’area e alla realizzazione della quadrettatura dell’area da indagare, come accade in qualsiasi scavo archeologico, per poter localizzare univocamente nello spazio tutti i dati che derivano da esso.
Vengono effettuate indagini geofisiche con il georadar su circa ottantamila metri quadrati. Il sottosuolo viene esaminato, a cura del professor Gaetano Ranieri, da sedici angolazioni diverse per osservare le anomalie del terreno.
In base alle anomalie geofisiche principali e alle analisi sulle foto aeree e satellitari vengono effettuati saggi di scavo in tre quadrati della parte più orientale dell’area, senza tuttavia rinvenire elementi a conferma delle anomalie individuate.
Quindi gli scavi si concentrarono nuovamente sulla necropoli, a sud delle porzioni indagate da Bedini nel 1975 e da Tronchetti nel 1977 e 1979. Considerazioni archeologiche suggerivano, infatti, il proseguimento della successione delle tombe e della discarica di frammenti scultorei.
Il prosieguo dell’indagine portò alla luce numerosi nuovi documenti del complesso scultoreo, quali betili, modelli di nuraghi, frammenti di statue di pugilatori, guerrieri e arcieri, cippi aniconici, reperti litici, frammenti di ceramica di età nuragica, fenicia e punica, e infine reperti metallici, tra cui si ricorda il “pendaglio a pendolo” a forma di fiaschetta miniaturistica, cosiddetta “del pellegrino”, tipico manufatto dell’età del ferro nuragica.
Pugilatori del tipo Cavalupo
Il rinvenimento più eclatante degli scavi del 2014 è stato il recupero di due statue di pugilatori la cui iconografia era fino a quel momento assente nel repertorio delle rappresentazioni antropomorfe di Mont’e Prama.
La prima statua, parzialmente ricomposta ed esposta nel Museo civico di Cabras dal 2016, raffigura un personaggio maschile stante che sostiene con la mano sinistra una sorta di grande scudo arrotolato e avvolgente. Il braccio destro è piegato a angolo retto, con l’avambraccio e la mano avvolti da una sorta di lungo guanto a estremità sferica. Residuano la testa con gli occhi a cerchi concentrici, il torso nudo, il bacino coperto da un corto gonnellino, le braccia, lo scudo avvolto in forma quasi conica e parti degli arti inferiori.
La seconda statua è del tutto simile, ma non è stata ancora restaurata ed è attualmente esposta al Museo civico di Cabras nelle stesse condizioni in cui fu estratta dal terreno, a dimostrazione della complessità e delicatezza del processo di restauro delle sculture di Mont’e Prama.
Le due nuove statue hanno un’altra particolarità che le distingue da tutte le altre finora rinvenute nella necropoli del Sinis: hanno una gamba avanti all’altra e il busto in leggera torsione. Per questo motivo non può appartenere a nessuna delle due statue la base coi due piedi affiancati e calzati da sandali, anch’essa esposta al Museo civico di Cabras.
Le due sculture trovano un confronto puntuale con il bronzo del cosiddetto “sacerdote-militare”, opera di fattura sarda, rinvenuta nella necropoli di Cavalupo di Vulci, nel Lazio, e databile nella seconda metà del IX secolo avanti Cristo.
Le tombe
Vennero individuate e scavate 16 tombe della tipologia a pozzetto circolare, di cui 8 coperte da lastrone e 8 a pozzetto semplice, ricoperte da un tumuletto di pietre. Le tombe della prima tipologia erano coperte da una lastra monolitica che sigillava la sepoltura, al di sotto della quale è stata identificata una stratigrafia molto semplice ricca di malacofauna terrestre, con scarsi materiali ceramici e nessun corredo.
L’intervento bioarcheologico è stato svolto in contemporanea e in sinergia con gli archeologi sul campo ed è stato progettato e realizzato con l’obiettivo di prelevare campioni di DNA per le analisi in laboratorio. Di conseguenza, la necessità di abbattere il rischio di contaminazioni con DNA moderno ha portato gli archeologi a effettuare lo scavo indossando tute, mascherine, copriscarpe, guanti e utilizzando materiale sterile.
Durante lo scavo è stata registrata la collocazione nello spazio delle ossa e dei frammenti rinvenuti. È stato analizzato il tipo di terreno, la cui composizione chimica è la causa principale del cattivo stato di conservazione del tessuto osseo. Le parti meglio conservate sono i denti, le ossa del neurocranio, alcuni archi vertebrali e le ossa lunghe, mentre risultano più usurate le ossa facciali, le falangi e le ossa corte. L’assenza di numerose parti anatomiche ha reso difficoltosa la ricostruzione della posizione originaria dei corpi, che sembrerebbe essere la stessa per tutti i casi analizzati: gli inumati avevano solitamente le gambe raccolte, le braccia parallele lungo i fianchi, con gli avambracci incrociati davanti al petto oppure paralleli ai femori, la testa ruotata con la faccia rivolta verso il basso. In alcuni casi l’individuo era adagiato su un lato a contatto con la parete della fossa.
L’inumato quindi veniva adagiato sul fondo della fossa e ricoperto con la terra di risulta della fossa stessa. Probabilmente era calato all’interno dei pozzetti con l’ausilio di sudari e funi per permettere di mantenere la posizione rannicchiata.